Quello che non ti dicono

Quello che non ti dicono è che a volte cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia.

Non sono addendi, ecco perché.

Accade così che quello per cui hai studiato, per cui ti sei preparata, formata e che ti piace fare – il lavoro dei sogni, presente? – non riesci a farlo.

Troppo vecchia. Non abbastanza esperienza documentata nel settore. Impossibilità al trasferimento in altra sede.

Non, non, non, non. Non c’è altro, grazie.

Quando per altri motivi c’è bisogno di qualcuno che faccia quel lavoro, gratis, provi ad alzare la mano e dire “io lo so fare, per un po’ l’ho fatto di lavoro”. Nessuno sente, nessuno ascolta, chiedono ad altri che lo fanno per passione o a sentimento.

A sentimento. Il mio in questo momento è dispiacere.

Se fossi al mio posto, il tuo quale sarebbe?

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Mi sono letta in un libro.

Lo intuivo, lo temevo.

Circospetta, mi sono avvicinata: lo avete già letto? che ne pensate? non sono convinta di essere pronta, magari poi me lo prestate.

Mi sono fatta prendere per mano da una persona amica. Ho inframmezzato la lettura con altri libri – ricordi d’infanzia, leggeri. Ho aspettato di essere sola e mi sono accertata di avere tutto il tempo del mondo.

Nelle prime righe di un racconto, lo specchio. Nelle ultime, il mostro che spero di non essere.

[Mostruosa maternità, di Romana Petri. Sta qui, in un link affiliato, oppure nei vostri incubi.]

Galateo funebre

Un tipo di guida che nessuno vorrebbe mai leggere, ma di cui pare ci sia decisamente bisogno: paese che vai, galateo funebre che trovi.

Un paio di costanti:

A nessuno piace andare ai funerali e tutti cercano, per quanto possibile, di evitarli.

Bella scoperta. Nessuno vorrebbe morire e il pensiero della morte è sempre “fastidioso”, da rimuovere il più possibile. Il funerale di un coetaneo, di un parente stretto, di qualcuno di molto giovane – ma ogni funerale, a dire il vero – porta con sé un carico di dolore e di tristezza che molti trovano intollerabile e preferiscono starne alla larga. Comprensibile, ma è proprio questo lo sforzo richiesto a chi va al funerale: partecipare al lutto e al dolore, aiutare a sopportarlo.

I fiori (e i biglietti) non servono a nulla.

Vero, a chi è morto non servono. Servono a chi resta, invece. Fanno capire che quella persona era benvoluta, che la sua morte è stata un dispiacere, che non sarà dimenticata. Da sempre, il timore più grande è quello di essere dimenticati – non furono forse costruiti imponenti monumenti funebri, fin dalla preistoria? Allora lasciamo qualcosa, un segno tangibile della nostra partecipazione: un fiore.

I biglietti, le parole scritte, servono ad esequie avvenute. I giorni prima del funerale sono densi, impegnati: ci sono cose da organizzare, persone con cui parlare, decisioni da prendere. Dopo, invece, ci si accorgerà del vuoto da riempire. Biglietti e messaggi di cordoglio cui rispondere (ecco perché ci si firma sempre con nome e cognome!), telegrammi (sì, in questi casi si usano ancora. Un piccolo gesto di attenzione con un tocco di classe), in alcuni casi annunci sui quotidiani locali o nazionali renderanno meno traumatico il passaggio tra il prima e il dopo. Quindi scriviamoli.

 

Ciò premesso, il resto sono dettagli sparsi:

  • ci si veste in modo sobrio e appropriato, non necessariamente di nero;
  • in alcune zone le condoglianze alla famiglia si fanno in chiesa, prima della cerimonia;
  • in altre, invece, dopo l’uscita della bara, sul sagrato;
  • a seconda della distanza tra cimitero e chiesa, il corteo funebre si farà a piedi oppure in automobile. In ogni caso, dare la precedenza ai parenti stretti e alle persone più intime.

Sia lieve la terra.

Libro e azzurro

Il libro è in cassaforte, la cassaforte è nella sacrestia di una chiesa sconsacrata. Da dove mi trovo, accanto all’unica porta della chiesa, posso vederla.

Inizia la conferenza, i miei colleghi vengono chiamati sul pulpito. Guardo Emma e le faccio cenno che no, non salirò con loro. Devo sorvegliare il libro

Davanti alla cassaforte c’è un gruppo di persone, l’hanno aperta. Stanno pensando di portare via il libro, cercano di capire se il cartello di avvertimento è vero oppure no.

Se spostano il libro, apparirà un’entità armata che ucciderà tutti, tranne me. Io sono l’unica che può fermarla, per questo non distolgo mai lo sguardo dal libro.

Gli déi si sono evoluti, ora usano armi moderne. Ma sono sempre loro, fin dall’antichità, con i loro divieti e le loro vendette personali.

Non so bene come potrò fermarla, quando comincerà ad uccidere la gente. Forse basterà un cenno, forse dovrò urlare “basta, smettila!”, forse dovrò arrivarle vicino o forse no. Continuo a guardare la cassaforte, avrei preferito che fosse impossibile da aprire. Invece il libro è lì, davanti a chi vuole portarlo via. Probabilmente, per farlo, aspettano la confusione dell’uscita.

Il libro è ancora lì, la conferenza è finita. Mentre esce, Emma mi dice “peccato che non sei salita sul palco anche tu, con la borsa azzurra avresti fatto proprio una bella figura”.

“Già, peccato. Pazienza, sarà per la prossima volta”.

Sono usciti quasi tutti, aspetto gli ultimi due e poi chiuderò la porta. Se sono fortunati e nessuno avrà preso il libro, l’entità non apparirà e sopravviveranno tutti. Se ruberanno il libro mentre io sono lontana, sarà peggio per loro.

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foto pixabay

From the real world: perché i pranzi di nozze costano di più?

No, non è perché quando avete chiesto il preventivo avete pronunciato la parola “matrimonio”.

Torniamo alla famosa lista degli invitati: quanti siete? 30? 80? 150?

Ecco, adesso provate a considerare la questione dal punto di vista del ristoratore. Normalmente, in un ristorante non arrivano mai tutti gli ospiti contemporaneamente e gli ordini arrivano in cucina in momenti diversi. Le stoviglie vengono continuamente lavate, usate e rilavate – difficilmente un ristoratore ha 200 bicchieri tutti uguali. Magari ne sono rimasti una decina di un vecchio servizio, che vengono usati al bisogno – l’importante è mantenere l’omogeneità all’interno dello stesso tavolo. Stesso discorso per piatti, posate e tutto quello che serve per apparecchiare.

La soluzione è semplice: quando si organizzano eventi per un elevato numero di persone, si ricorre ai servizi di noleggio di stoviglie. Stesso discorso per i servizi di catering: fateci caso, al 90% dei matrimoni dove andate ci sono gli stessi piatti bianchi.  Sono il modello base, quello che costa meno.

Oltre alla mise en place, con eventuali tavoli aggiuntivi – non crederete certo che tutti i ristoranti abbiano tavoli rotondi, rettangolari, a goccia o di qualsiasi altra forma li abbiate scelti! – sedie aggiuntive eccetera eccetera, c’è la questione del servizio.

Ottanta, cento, centocinquanta, duecento persone che si siedono a tavola nello stesso momento e che mangiano contemporaneamente richiedono un servizio diverso: per farla breve, servono più camerieri.

E poi c’è il cibo. Scelta dei piatti, numero delle portate, preparazione (la frutta costa tanto perché è una seccatura sbucciarla e tagliarla, porta via un sacco di tempo).

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Tutto questo è incluso nel famoso “costo per persona”, quello che vi chiederanno di pagare per ogni posto apparecchiato e non disdetto entro il termine utile che vi verrà indicato (circa una settimana prima dell’evento).

I posti apparecchiati si pagano? sì.

Ma non sono venuti e non hanno mangiato! Non fa differenza: la spesa è stata fatta, il cibo preparato, le stoviglie messe in conto.

I posti apparecchiati si pagano. Tenetelo presente quando, a pochi giorni dall’evento, controllerete la lista degli ospiti che hanno confermato. Se non avete avuto risposta, sollecitateli. Se vi dicono ancora “non so”, vuol dire che non verranno: senza rancore, cancellateli dall’elenco e pensate a quei €70/120/150/300 che vi stanno facendo risparmiare.

 

 

Millo il mirtillo

C’era una volta, vicino ad un laghetto di montagna, una distesa di piante di mirtilli, dove si diceva crescessero i frutti più buoni del mondo. Tra tutte queste piante ce n’era una, in particolare, sempre carica di grossi e succosi mirtilli blu. Ogni giorno i bambini che andavano in gita al lago, ed erano molti, si fermavano a raccogliere i suoi frutti e ogni giorno la pianta, orgogliosa del proprio successo, ne faceva nascere di nuovi, sempre migliori.

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foto pixabay

Da parte loro, i mirtilli facevano a gara per farsi scegliere per primi e cercavano di mettersi in mostra il più possibile: infatti per loro, come per tutta la frutta, non vi è destino più bello che rendere felici i bambini con il loro gusto dolce. Essere scelti e, meglio ancora, essere mangiati non appena colti, era per i frutti un grande onore.

I mirtilli più piccoli attendevano con trepidazione il momento in cui sarebbero stati grandi abbastanza per finire nelle manine dei bambini e non vedevano l’ora di crescere: per questo facevano di tutto per accaparrarsi i posti migliori sui ramoscelli, quelli più luminosi ma freschi, così sarebbero rimasti pieni di succo dolce.

Su quel cespuglio c’era anche un piccolo mirtillo, che tutti prendevano in giro. Ogni giorno compiva sforzi colossali per scansare le foglie che lo coprivano, ma erano troppe e troppo fitte e quando finalmente raggiungeva una buona posizione il sole era già al tramonto, troppo debole per scaldarlo e maturarlo a dovere. Così rimaneva piccolo, mentre gli altri crescevano. Le rare volte in cui, ormai a pomeriggio inoltrato, alcuni bambini lo vedevano ed erano sul punto di coglierlo, si fermavano e lo lasciavano lì, dicendo “No, tu sei troppo piccolo e non sei lucido. Forse sei addirittura aspro, resta qui a maturare ancora un po’”.

Così il tempo passava. Millo rimaneva minuscolo e i bambini non lo raccoglievano, attratti dai suoi fratelli molto più grandi. Ogni giorno Millo diventava sempre più triste e si sentiva sempre più solo, all’ombra della sua foglia. Aveva perfino rinunciato a cercare di raggiungere la luce del sole, certo che per lui non vi fosse speranza alcuna di essere colto e mangiato.

Un giorno, verso la fine dell’estate, passò di lì un gruppo di bambini venuti apposta per raccogliere i fruttini. Raccoglievano tutti quelli che trovavano, facendo a gara per riempire per primi i propri barattolini, e avevano cura di non lasciare nemmeno un frutto sui cespugli.

“Che bello!” pensò Millo “finalmente è il mio momento, anche io verrò raccolto e mangiato e renderò felice un bambino”. E si protendeva, cercando di mettersi in mostra il più possibile.

Un bambino allungò la manina e lo staccò dalla foglia. Avvicinò Millo al viso e lui era pronto ad essere divorato, ma il bambino si fermò con la mano a mezz’aria.

– Oh, tu proprio no! – esclamò, guardandolo con aria disgustata – sei piccolo e rinsecchito, scommetto che non hai succo e che fai proprio schifo. Non ti voglio!

E lo lasciò cadere a terra.

Scese la sera. Tutti gli altri mirtilli erano stati raccolti e portati via, i bambini erano ormai lontani e Millo era rimasto solo, abbandonato in mezzo ai fili d’erba. Piangendo rotolò via, lontano da quel luogo triste dove nessuno lo voleva.

Scalò sette montagne, attraversò sette fiumi e superò sette pianure. Millo era sfinito quando finalmente decise di fermarsi: nessuno lo aveva mangiato, nemmeno gli animaletti più affamati che aveva incontrato nel suo lungo viaggio. Aveva caldo e si sentiva molto triste e stanco. Così, trovato un angolino tranquillo e riparato dal sole, decise che si sarebbe lasciato morire e sprofondò nel terreno.

Passò l’autunno, passò l’inverno e arrivò la primavera. Nel luogo dove Mirtillo si era fermato nacque un piccolo arbusto. Nessuno passava mai di lì, così le persone del villaggio vicino non fecero caso a quella piccola pianta di una specie che non avevano mai visto.

L’estate era ormai inoltrata quando un giorno una bambina passò da quelle parti. Era il suo compleanno e la mamma le aveva chiesto di andare a cercare lamponi e fragole per la torta che le stava preparando. La bambina camminava lentamente, guardandosi attorno con attenzione per non lasciarsi sfuggire nemmeno un frutto. Vide un cespuglio di un tipo che non aveva mai visto, pieno di minuscole bacche blu. La mamma le diceva sempre di non raccogliere e soprattutto non mangiare ciò che non conosceva, ma era una bambina curiosa. Prese dallo zainetto uno dei barattolini per la frutta e lo riempì di quelle palline blu che rotolavano da tutte le parti e che tingevano le mani di viola. Avevano un profumo dolcissimo, ma non osava assaggiarle per timore che fossero velenose.

Quando tornò a casa, la mamma le disse che non aveva mai visto quei frutti e che non sapeva se fossero buoni o no. La mandò dalla nonna, ma nemmeno la nonna seppe aiutarla. Allora la bambina andò dalla vecchietta che viveva nella casetta al limitare del bosco, che si diceva avesse cent’anni e che sapeva ogni cosa.

– Fammi un po’ vedere, bambina mia – le disse quando arrivò con il suo barattolino di frutti blu – ma questi sono Mirtilli! Li ho visti solo una volta, tanti e tanti anni fa, in un posto molto lontano da qui. Il cespuglio da cui li hai colti era piccolo e basso? Sì? Allora coraggio, assaggiali!

La bambina chiuse gli occhi e prese uno di quei “mirtilli”. Che sorpresa! Non si aspettava che un frutto così piccolo potesse essere tanto dolce e succoso e ben presto divorò tutti quelli che aveva portato con sè.

Il giorno seguente tornò al cespuglio e con sua grande sorpresa vide che era già carico di nuovi frutti, e così per tutta l’estate. Da allora quel cespuglio fu sempre carico di mirtilli dolcissimi, così che tutti i bambini  potessero coglierne a volontà.

From the real world: l’angolo delle guide pratiche.

Anno nuovo, rubrica nuova: frammenti di consigli pratici tratti dalla vita vera. E dato che lavoro con i matrimoni, per i matrimoni, ecco qua il primo argomento: sposarsi/unirsi civilmente/contrarre matrimonio e tutte le altre definizioni che vi vengono in mente.

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photo by bissinigaweddings

Da dove si comincia?

Non è così scontato, ma la prima cosa da fare, una volta deciso di sposarsi, è preparare la lista degli invitati. In questo momento non sarà certo una lista esaustiva né definitiva, ma servirà per darvi un’idea di dove volete andare a parare e, soprattutto, il numero degli invitati sarà un’informazione imprescindibile per qualsiasi preventivo andrete poi a chiedere.

La scelta di chi invitare spetta solo e soltanto agli sposi. Ci sono coppie (from the real world, li conosco davvero!) che decidono di fare una cerimonia intima, solo con i parenti stretti – per un totale di 8-10 persone – e ci sono coppie che invece preferiscono una festa di paese, con 250 invitati.

Tra questi due estremi, ci sono infinite possibilità intermedie… l’unica cosa che conta è che gli sposi siano d’accordo tra loro sulle dimensioni e sulla portata dell’evento.

Budget tip: ricordate che tagliare la lista degli invitati è un modo sicuro per risparmiare.

Consiglio pratico: preparate la lista su un file di excel o simili e, accanto al nome dell’invitato, scrivete indirizzo, indirizzo email, numero di telefono, se ha confermato la sua presenza e predisponete un campo “note”, dove appuntarvi eventuali necessità particolari (es. allergie alimentari).

Esempio lista invitati (pdf scaricabile)

Una volta che avrete la vostra lista, armatevi di tanta pazienza e mostratela ai vostri genitori e ai vostri suoceri. Chiedete se avete dimenticato qualche parente lontano, di cui magari ignoravate l’esistenza (anche questo è successo davvero…), e chiarite se avete intenzione di invitarli oppure no. Con lo stesso modello, potete preparare una lista di “non invitati che comunque riceveranno un biglietto o i confetti” – un esempio? le vicine di casa che vi manderanno un pensierino, quei cugini che abitano in Nuova Zelanda e non riusciranno ad organizzarsi per un weekend italiano e così via.

In questo momento ci vorrà tanta, tanta pazienza.

Lo specchio nello specchio – Michael Ende

 

Sotto l’esperta guida del padre e maestro, il figlio aveva desiderato ardentemente di possedere le ali. Per molti anni, in lunghe ore di lavoro nei suoi sogni, era andato fabbricandosele, penna dopo penna, muscolo dopo muscolo, ossicino dopo ossicino, finché esse avevano pian piano assunto forma. Le aveva fatte crescere nella giusta posizione dalle scapole (era particolarmente difficile percepire con esattezza la propria schiena in sogno), e a poco a poco aveva imparato a muoverle nella maniera adeguata. Aveva messo a dura prova la propria pazienza continuando a esercitarsi finché, dopo innumerevoli tentativi falliti, era riuscito per la prima volta a sollevarsi per un breve istante da terra. Ma poi aveva acquistato fiducia nella propria opera, grazie all’incrollabile benevolenza e severità con cui il padre lo guidava. Col passare del tempo si era talmente abituato alle ali che le considerava in tutto e per tutto una parte del suo corpo, al punto da avvertire in esse sensazioni di dolore o di benessere. Infine aveva cancellato dalla memoria gli anni trascorsi senza possederle. Le aveva avute fin dalla nascita, al pari degli occhi o delle mani. Era pronto.

Non era affatto proibito lasciare la città-labirinto. Al contrario, chi vi riusciva veniva considerato un eroe, un uomo di grande talento, e della sua leggenda si continuava a parlare a lungo. Ma ciò era consentito solo alle persone felici. Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.

Però le persone felici erano rare nei millenni.

Chi era disposto a tentare doveva prima sottoporsi a un esame. Se non riusciva a superarlo, la punizione non cadeva su di lui, ma sul suo maestro, ed essa era dura e crudele.

Il viso del padre si era fatto estremamente serio, allorché gli aveva detto: «Ali di questo tipo portano soltanto chi è leggero? ma è solo la felicità a rendere leggeri.» Poi aveva fissato a lungo il figlio con sguardo indagatore e infine gli aveva chiesto: «Sei felice?» Oh, se si trattava di quello non c’era alcun pericolo. Era tanto felice che pensava di potersi librare in aria anche senza ali, dal momento che amava. Amava con tutto l’ardore del suo giovane cuore, amava senza riserve e senza ombra di dubbio. E sapeva che il suo amore era corrisposto altrettanto incondizionatamente. Sapeva che la sua amata lo stava aspettando e che al termine del giorno, dopo aver superato l’esame, sarebbe andato da lei nella sua stanza celeste. Allora, leggera come un raggio di luna, si sarebbe adagiata fra le sue braccia e, uniti in quell’interminabile amplesso, si sarebbero librati sopra la città lasciandosene alle spalle le mura come un giocattolo per il quale erano diventati ormai troppo grandi; avrebbero volato sopra altre città, sopra foreste e deserti, mari e montagne, avanti, sempre più avanti, fino ai confini del mondo.

Sul corpo nudo egli non portava altro che una rete da pesca che lo seguiva, come un lungo strascico, per le strade e i vicoli, i corridoi e le stanze, secondo il cerimoniale prescritto per quell’ultimo, decisivo esame. Era certo di riuscire ad assolvere il compito che gli era stato assegnato, sebbene non lo conoscesse. Sapeva solo che esso si confaceva sempre alla natura dell’esaminando. Perciò non era mai uguale a quello di un altro. Si poteva dire che il compito consisteva proprio in questo, nell’indovinare, in base a un’effettiva conoscenza di sé, in che cosa consistesse. L’unica rigida norma alla quale doveva attenersi era quella di non entrare, per nessun motivo, per la durata dell’esame, cioè fino al tramonto, nella stanza celeste della sua amata. Altrimenti sarebbe stato subito escluso da tutto il resto.

Sorrise, ripensando all’espressione grave, quasi furente, con cui il suo adorato, benevolo padre gli aveva comunicato il divieto. Non provava in sé la benché minima tentazione di trasgredirlo. A questo riguardo non c’era alcun pericolo, poteva stare tranquillo. In fondo non era mai riuscito a capire bene tutte quelle storie in cui qualcuno, proprio a causa di un tale divieto, si era sentito irresistibilmente spinto a violarlo. Camminando per le strade e gli edifici ingannevoli della città-labirinto, era già passato più volte davanti al fabbricato a forma di torre al cui ultimo piano, quasi sotto il tetto, abitava la sua amata, e due volte persino davanti alla sua porta, al numero 401. E aveva proseguito, senza neppure fermarsi. Ma il vero esame non poteva consistere in questo. Sarebbe stato troppo, troppo semplice.

Ovunque gli capitasse di andare, si imbatteva in infelici che lo seguivano con occhi pieni di ammirazione, di rimpianto o anche d’invidia. Molti li conosceva già, sebbene gli incontri fra le persone non potessero mai essere provocati intenzionalmente. Nella città-labirinto la posizione e la disposizione delle case mutavano di continuo, cosicché era impossibile darsi appuntamento. Ogni incontro era casuale o voluto dal destino, a seconda di come lo si volesse intendere.

D’un tratto il figlio avvertì che qualcosa tratteneva la rete dietro di lui e si voltò. Seduto sotto l’arco di un portone, vide un mendicante con una gamba sola, che aveva infilato una delle stampelle nelle maglie della rete.

«Che fai?» gli chiese.

«Abbi pietà!» rispose il mendicante con voce roca. «Per te non sarà un gran peso, mentre a me darà molto sollievo. Tu sei un uomo felice e potrai sfuggire al labirinto. Ma io resterò qui per sempre, perché non sarò mai felice. Perciò ti prego, porta via con te almeno un po’ della mia infelicità. Così prenderò anch’io un minimo di parte alla tua salvezza. Sarebbe una consolazione per me.»

Raramente le persone felici sono dure d’animo: propendono alla compassione e desiderano far partecipi anche gli altri della propria ricchezza.

«Bene», disse il figlio, «sono contento di poterti rendere un favore per così poco.»

Già al successivo angolo di strada incontrò una donna dal volto emaciato, vestita di stracci, assieme a tre bambini mezzo morti di fame.

«Non vorrai certo negarci quanto hai concesso a quello là», gli disse, piena d’odio.

E attaccò alla rete una piccola croce da sepolcro.

Da quel momento la rete si fece più pesante, sempre più pesante. Di infelici ce n’erano in gran quantità nella città labirinto e ognuno di loro, imbattendosi nel figlio, attaccava qualcosa alla rete, una scarpa o un gioiello prezioso, un secchio di latta o un sacco colmo di denaro, un capo di vestario o una stufetta di ferro, una ghirlanda di rose o un animale morto, un utensile o addirittura, in ultimo, il battente di una porta.

Si avvicinava la sera e con essa la fine dell’esame. Il figlio, piegato in avanti, procedeva a fatica, passo dopo passo, quasi dovesse lottare contro una bufera violenta e silenziosa. Il suo viso grondava sudore ma egli era ancora pieno di speranza, perché credeva di aver capito in che cosa consisteva il suo compito e, nonostante tutto, si sentiva abbastanza forte per portarlo a termine.

Poi venne il crepuscolo e ancora nessuno era comparso per dirgli che quanto aveva fatto bastava. Senza sapere come, era arrivato, con l’infinito carico che si trascinava dietro, alla terrazza sul tetto dell’edificio a torre in cui si trovava la stanza celeste della sua amata. Non aveva mai notato che da lì si scorgeva in basso una spiaggia, ma forse fino a quel momento non era mai stata in quel luogo. Il figlio divenne profondamente inquieto nel rendersi conto che il sole si stava già immergendo dietro l’orizzonte caliginoso.

[Michael Ende, Lo specchio nello specchio, TEA 2009]

Carica delle speranze altrui, la rete si fa più pesante, sempre più pesante. Le ali avvizziscono e i sogni vengono rimandati a data da destinarsi.

La madre (2)

Meccanicamente, la donna spingeva dolcemente la carrozzina avanti e indietro, anche se dall’interno non proveniva alcun suono.

“Ormai ci ho fatto l’abitudine” spiegò “appena smetto si sveglia e si mette a piangere. A casa no, dorme tranquilla. Ma qui è diverso, qui si agita”.

Di fronte a lei, l’altra non rispose. Era la stessa donna della volta precedente, sembrava più stanca. Probabilmente trascorreva numerose notti insonni.

Senza smettere di cullare, la donna sedette.

“L’altra volta che ci siamo incontrate le ho detto che anch’io ero stata una madre, ricorda? Ecco, in quel momento ero già in attesa – ma non le avevo detto nulla, perché sono diventata scaramantica. Questa volta non ho detto niente a nessuno e non ho voluto nessun oggetto, in casa, finché la bimba non è arrivata. Femmina, anche lei, come quella che ho perduto. Avevo perfino pensato di darle lo stesso nome, ma poi ho riflettuto che non sarebbe stato opportuno. Lei non è sua sorella, lo so benissimo. Sarebbe da pazzi fingere che lo sia. Quindi il nome è diverso. Be’, non così diverso… la mia prima figlia si chiamava Giorgia. Lei invece si chiama Maria Giorgia. Le assomiglia tanto, sa? Come aspetto, intendo.

Quanto a carattere, invece, è diversa. Maria Giorgia è tranquilla, sì, ma di notte si sveglia spesso. La piccola Giorgia invece non si svegliava quasi mai… ma non mi lamento, dopotutto la mia piccola è arrivata quando ormai pensavo non sarei più stata mamma.

E credo proprio di stare meglio. Penso che la terapia non mi servirà più, anzi: appena la dottoressa mi chiama ho intenzione di dirle che con la seduta di oggi mi sento guarita. Ho la mia bimba, adesso sto bene”.

La porta dello studio si aprì. Impassibile come solo anni di esercizio della professione le avevano insegnato ad apparire, la dottoressa Savoldi, specialista in psichiatria, osservò la situazione. Ancora una volta, la donna era seduta davanti allo specchio e senza riconoscersi parlava a se stessa. Se la carrozzina fosse stata vuota, sarebbe stato un piccolo progresso, ma non lo era: ben avvolta in copertine accuratamente ricamate a mano, giaceva una bambola, copia di silicone della bambina perduta.

La madre (1)

Parlò sottovoce, forse più a se stessa che ad altri. Nella sala d’attesa non c’era praticamente nessuno. Davanti a lei sedeva una donna di circa 40 anni, il cui aspetto si poteva sintetizzare in una sola parola: sciatta. Nella borsa semi aperta si intravedevano un biberon e alcuni pannolini.

Lei non se ne curò. Iniziò a parlare fissando il vuoto, lanciandole un’occhiata ogni tanto per vedere se la stava ascoltando. Sembrava quasi di sì, distrattamente.

“Una volta sono stata mamma anche io. Per circa due anni, quasi tre.

Sembra incredibile, ma ho avuto una figlia. L’ho cercata, concepita, partorita. Ho fatto analisi su analisi per accertarmi che fosse sana, mentre era ancora nella mia pancia.

Quando è nata era uno scricciolo, nemmeno 2,5 kg. Minuscola, piangeva poco, mangiava molto. Non l’ho allattata perché avevo poco latte e lei doveva crescere, ma non ne ho mai sentito la mancanza.

L’abbiamo cresciuta insieme ai nonni, che si prendevano cura di lei mentre io e il papà eravamo al lavoro e a volte anche durante i weekend o le serate in cui volevamo uscire da soli, come una coppia di fidanzati.

Eravamo giovani, ma non giovanissimi. Quasi 30 anni.

Poi la bambina cominciò ad avere un piccolo problema ad un occhio. Pensavamo avesse bisogno degli occhiali – come i suoi genitori, del resto – e così la portammo a una visita. Non eravamo pronti.

L’oculista ci mandò da un altro specialista, che richiese altri esami e il sospetto divenne certezza: la nostra bambina aveva un tumore al cervello, di quelli cattivi.

Venne operata d’urgenza, il quadro clinico era agghiacciante. Dopo l’intervento – nonostante l’intervento, in cui il chirurgo fece tutto il possibile, perse la vista. E da allora non fu più la stessa.

La spostarono da un ospedale all’altro, ma a casa non ce la lasciarono più portare.”

La porta dello studio si aprì e lei tacque.